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LE RADICI E LE ALI

..conservando la memoria delle lotte e delle resistenze contro le ingiustizie... alzandoci in volo per conquistare il cielo.....

venerdì 14 agosto 2009

Giorgio Bocca ha ragione


Giorgio Bocca è un giornalista straordinario, autore di articoli criticabili quanto si vuole, spesso additato per le sue scelte controcorrente ma sempre nette, coerenti e trasparenti . A Bocca non manca il coraggio delle sue idee , l’entusiasmo, giovanile alla sua veneranda età, e la lucidità di analisi impietose ma sempre aderenti alla realtà.
Questa volta lancia la sfida in alto : molto in alto.
Verso una delle quelle istituzioni considerate in maniera quasi “bi-partisan” sacra : l’Arma dei Carabinieri.

Lo fa dalle colonne dell’Espresso sfidando il quieto vivere dell’opposizione e il collateralismo peloso di questo Governo, un Governo di Nani, Showgirl, Escort ma anche di fascisti.
Vi risparmio il coro infame delle critiche e vi espongo il fulcro del suo ragionamento e soprattutto la sua semplice esposizione dei fatti. Fatti pesanti, accertati e incontrovertibili.

L’architrave dell’articolo di Bocca risiede in questa affermazione : i Carabinieri in Sicilia devono accettare un patto di convivenza con la Mafia. I Carabinieri , come la presenza molecolare della Mafia , non sono qualcosa di estraneo nel tessuto della società siciliana.
Anzi, assieme alla Chiesa, costituiscono oggi le uniche realtà “strutturali” presenti dovunque.
Usando una frase che sembra tratto dalle pagine di Sciascia, o io direi di Roberto Saviano, ovunque, in qualsiasi paese, rione e borgata c’è una Chiesa, c’è una caserma dei Carabinieri e c’è una cosca Mafiosa.
E’ la sociologia urbana a descriverci questa stratificazione territoriale della società siciliana e sono milioni di pagine di indagini o sentenze giudiziarie a descriverci il territorio siciliano dominato da un grumo di interessi che mette assieme interessi legali e illegali, Stato e Anto-stato, economia e accumulazione criminale, attività lecite e illecite.
Sul territorio siciliano non vive la leggenda della lotta senza quartiere tra guardie e ladri : sul territorio e attraverso il controllo di esso si riannodano i fili di un patto di coesistenza condiviso dalla Mafia quanto dagli organi dello Stato ; a tutti i livelli, politico-amministrativo, quanto repressivo-giudiziario.
In questo contesto i Carabinieri non sono, né potrebbero mai essere, un mondo a parte.

Ma accanto a questa riflessione generale e a forte impronta sociologica, è necessario, e Bocca lo fa con dovizia di particolari, citare fatti espliciti che possano sostenere sul piano del giudizio storico-politico, quanto sostenuto prima.
Si citano alcuni casi giudiziari che riguardano “attenzioni speciali” riservate dai Carabinieri nelle operazioni di Mafia.

1. La mancata perquisizione del covo di Toto’ Riina quando costui venne catturato il 15 Gennaio 1993. Ricordiamo che quella villetta, casa del “Capo dei Capi” sita a Palermo in Via Bernini, viene “dimenticata “ fino al 2 febbraio dello stesso anno. Si cattura uno dei maggiori ricercati mondiali , uno dei criminali più noti al mondo, eppure…la sua abitazione viene ritenuta non meritevole di una sbirciatina ….per due settimane!!!!! E’ ovvio che venga trovata completamente spoglia e disabitata …..chiunque avrebbe avuto tutto il tempo di traslocare qualsiasi materiale compromettente e utile alle indagini,
Per questa “dimenticanza” vengono processati e assolti – su richiesta del PM A.Ingroia –l’allora comandante del ROS Generale Mario Mori e il famoso Capitano “Ultimo” Sergio De Caprio.


2. Toto’ Riina ha parlato nei giorni scorsi- tramite il suo legale- di una trattativa avviata dai Carabinieri con Cosa Nostra, il famoso “papello”. Dello stesso tentativo di accordo/scambio (di cosa ?)/mediazione, si trova testimonianza nelle dichiarazioni di Massimo Ciancimino , figlio di Vito, colui che quel canale di comunicazione Carabinieri-Mafia sembra aver avviato. Chi l’interlocutore per parte dello Stato ? Sempre il Generale Mario Mori.


3. Un pentito di Mafia, Angelo Siino, accusa il Procuratore Guido Lo Forte di connivenze mafiose. Lo Forte era uno dei piu’ stretti collaboratori di Giancarlo Caselli il procuratore Nazionale Antimafia.
Chi i latori di questa confessione ? Sempre il Generale dei Carabinieri Mario Mori stavolta in compagni del suo Vice Giuseppe De Donno.

4. La mancata cattura di Bernardo Provengano altro Boss latitante eccellente. Nel 2001 il Generale Mario Mori (ancora lui !!!!) pare avesse ignorato l’informazione di un pentito sul possibile nascondiglio del pericoloso criminale. Perche’ lo fece ? Faceva parte del “Patto” di cui al punto 2 ?
Per questa vicenda il generale Mori è tuttora sotto processo con l’accusa di favoreggiamento aggravato.

Due fatti curiosi .
Un Generale dell’ Arma sul cui capo pendono simili sospetti viene assunto dal Sindaco di Roma Alemanno come “ Consulente alla sicurezza “ e sarà incaricato di conseguenza dell’addestramento delle “ Ronde” capitoline .

Il Governatore della Lombardia Formigoni, ha nominato lo stesso Mori assieme al suo fidato Vice De Donno, in una task –force che si occuperà “antimafia” che vigilerà sulle possibili infiltrazioni nei lavori per Expo 2015.


C’è anche un punto 5.
Non è di Giorgio Bocca ma mi permetto di aggiungerlo io a corollario o se preferite a sostegno dei ragionamenti fin qui esposti.

5. L’omicidio a Cinisi di Peppino Impastato. Un caso eclatante di tentato depistaggio di indagini che soltanto a distanza di molti anni hanno dimostrato la mano mafiosa, di Tano Badalamenti, in quel efferato e per noi compagni siciliani ancor oggi doloroso delitto.
Voglio ricordare quei fatti per rivendicare una memoria e per rendere giustizia a Peppino.



La mattina del 9 maggio del 1978, intorno ai resti del corpo di Peppino Impastato, circolava un'umanità che avrebbe avuto un ruolo fondamentale, in positivo e negativo, nella battaglia che parte delle istituzioni hanno combattuto contro Cosa Nostra.
Francesco Scozzari. E' uno dei due magistrati a cui viene affidata quasi subito l'inchiesta. Il suo nome finisce sui quotidiani nazionali cinque anni più tardi. Assassinato il consigliere istruttore Rocco Chinnici, Scozzari è travolto dalle accuse registrate nel diario personale del magistrato ucciso. Tra queste l'accusa di avere avuto un atteggiamento morbido in alcuni processi di mafia in cui Scozzari era chiamato a svolgere il ruolo della pubblica accusa. Il Csm l'8 settembre del 1983 lo trasferisce, ma Scozzari preferisce dimettersi dalla magistratura.
Domenico Signorino. E' l'altro magistrato incaricato delle prime indagini. Otto anni dopo l'omicidio Impastato è Pm nel primo maxiprocesso contro le cosche, ma il 3 dicembre del 1992 (pochi mesi dopo le stragi di Falcone e Borsellino), travolto dalle dichiarazioni di alcuni pentiti che lo accusavano di collusioni con i boss, si uccide con un colpo di pistola.
Rocco Chinnici. E' il magistrato che eredita le indagini di Scozzari e Signorino, che ipotizza per la prima volta il delitto di mafia e il depistaggio dei carabinieri che condussero le prime indagini. Viene assassinato il 29 luglio 1983 con un'autobomba insieme a 3 carabinieri e al portiere del suo stabile.
Antonio Subranni. E' il maggiore dei carabinieri che viene ritenuto il principale responsabile delle indagini iniziali dell'Arma. Indagini che escludevano la pista del delitto di mafia e conducevano al suicidio o all'incidente del terrorista. Diventerà generale, comandante del Ros dei carabinieri, consulente della stessa Commissione nazionale antimafia, prima di andare in pensione.
Emanuele Basile. Il capitano dei carabinieri di Monreale, che partecipa alle prime indagini, verrà assassinato dalla mafia il 4 maggio del 1980 per le sue inchieste sull'escalation criminale della cosca corleonese di Totò Riina. Dopo i primi rilievi non parteciperà più all'indagine.
Carmelo Canale. Oggi alla sbarra per concorso in associazione mafiosa (una decina di pentiti lo accusano di avere fornito informazioni riservate ai boss), è l'investigatore che sequestra lettere e documenti di Peppino dalla casa della zia, dove il giovane viveva. Esce da queste carte la lettera dalla quale i carabinieri suppongono una volontà suicida del giovane. Ci vogliono 23 anni ed i consulenti dell'antimafia per scoprire che la lettera ha tutt'altro tono. E sono gli stessi consulenti, sempre 23 anni dopo, e con fatica, ad ottenere dal comando dei carabinieri le carte di Peppino sequestrate (anche informalmente) e mai fornite ai magistrati.
Antonino Lombardo. Il maresciallo dei carabinieri morto suicida il 4 marzo del 1995, cognato di Canale, non partecipa alle indagini sul delitto Impastato. Arriva dopo quel delitto alla compagnia di Terrasini (il comune limitrofo a Cinisi). Accusato di collusioni con i boss della zona, Lombardo (come scrive lui stesso nei rapporti conclusivi dei colloqui avuti nell'autunno del 1994 con il boss Gaetano Badalamenti detenuto negli Usa) in quegli anni raccoglie più di una confidenza del boss Gaetano Badalamenti, ma nulla sarà mai registrato in atti ufficiali riguardo al delitto Impastato.
Boris Giuliano. Il capo della squadra mobile assassinato dal boss Leoluca Bagarella il 21 luglio del 1979, viene visto da più testimoni sul luogo del delitto. Ma non partecipa alle indagini. I carabinieri, pur sostenendo la pista dell'incidente del terrorista, tengono lontani anche gli investigatori della Digos. Giuliano aveva già scoperto il ruolo fondamentale della mafia di quella zona intercettando all'aeroporto due valigie con circa mezzo milione di dollari provenienti dagli Usa (l'incasso di una grande partita di droga) e presumibilmente indirizzate a don Tano Badalamenti. "Esperto di eroina e di lupara", lo derideva dai microfoni di Radio Aut Peppino Impastato, ma pochi in quei giorni lo ricordarono.

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