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LE RADICI E LE ALI

..conservando la memoria delle lotte e delle resistenze contro le ingiustizie... alzandoci in volo per conquistare il cielo.....

domenica 25 ottobre 2009

Genchi: Stopparono le mie indagini e diedero tutto ai carabinieri, la trattativa ci fu


"La trattativa c'è stata, ne sono testimone", giura Gioacchino Genchi. Poliziotto, poi super consulente delle procure (fino al caso dell' "Archivio Genchi"), lavorò alle indagini sulla strage di via D'Amelio e la morte di Paolo Borsellino, "Ma fummo fermati. Arrivò l'annuncio che tutto doveva passare nelle mani dei carabinieri.
Ci sono atti inconfutabili del ministero dell'Interno a spiegare l'operato dello Stato".


Le Primissime fasi dell'indagine.
"Sin dall'immediatezza della strage l'attenzione si è rivolta alle attività importanti che in quel momento stava eseguendo Borsellino. In particolare alle dichiarazioni di Gaspare Mutolo, che era l'uomo di fiducia di Toto Riina. Mutolo era già stato sentito da Falcone a Dicembre 1991".

Qual era il suo incarico allora?
"Dirigevo il nucleo anticrimine per la Sicilia occidentale e la zona telecomunicazioni, il capo della polizia mi aveva dato un secondo incarico per coordinare meglio l'attività investigativa nel periodo delle stragi. Ero consulente della procura di Caltanissetta".

Borsellino doveva essere fermato dopo le rivelazioni del braccio destro di Riina?
"L'attenzione si concentrò sulla pista dei mandanti esterni proprio per la gravità delle dichiarazioni di Mutolo, che coinvolgevano apparati istituzionali dello Stato, politici, magistrati, uomini dei servizi segreti e della polizia, medici. Insomma: tutta la "zona grigia" che aveva fatto da contorno a cosa nostra. Proprio partendo da questa ipotesi, si è valutato chi volesse davvero fermare Paolo Borsellino. I contatti che il magistrato aveva avuto al ministero dell'interno lasciavano ipotizzare che qualcuno, in ogni modo, cercasse di fermarlo per le indagini che sarebbero scaturite dalle dichiarazioni di Mutolo su persone di altissimo livello nelle istituzioni".

La vedova Borsellino ha raccontato che suo marito aveva paura di essere spiato dal monte Pellegrino, dal Castello Utveggio.
"La signora Borsellino, già molti anni fa, mi confermò questa sua impressione che ora ha raccontato alla stampa e che sicuramente aveva già riferito ai magistrati di Caltanissetta. Borsellino aveva già individuato nel Castello e negli uomini un possibile e grave pericolo, fino al punto da imporre alla moglie di serrare le imposte della camera da letto".

Ma chi c'era nel Castello?
"Si era installato un gruppo di persone che erano state all'alto commissariato per la lotta alla mafia. Dopo il cambio di vertice nella struttura con la nomina di Domenico Sica, erano stati tutti spostati al Castello. C'erano ufficiali che erano stati all'alto commissariato, dov'era pure Bruno Contrada, che era capo di gabinetto del commissario De Francesco ed altri soggetti su cui abbiamo svolto delle indagini. Il Castello era in una posizione ottimale per garantire la visuale su via D'Amelio, da dove sarebbe stato facile, anche con un binocolo, avere il controllo della via per far detonare l'esplosivo".

Lei indicò la zona del castello come possibile luogo di appostamento di chi teneva il timer.
"Si. E i sospetti derivano dal fatto che, quando hanno saputo che le indagini si stavano appuntando su quell'edificio, hanno smobilitato tutte le attrezzature e sono spariti".

Ma perchè proprio quella zona?
"Questo è l'interrogativo: perchè quell'attentato non è stato fatto a Villagrazia, dove Borsellino villeggiava e sarebbe stato agevole ucciderlo con una pistola, o in via Cilea dove abitava? Perchè in via D'Amelio dove occasionalmente si recava dalla madre? Perchè in quella zona c'era quel "controllo" del territorio, perchè era stato possibile eseguire un'intercettazione telefonica sul telefono della madre e perchè c'era la possibilità di colpirlo in un luogo dove fosse stato poco protetto".

Un'operazione che non sarebbe stata condotta solo dalla mafia.
"C'è la certezza che dal punto di vista dinamico-organizzativo ci siano dei soggetti esterni a Cosa Nostra che si sono occupati dell'attentato. Per tutte le altre stragi di Mafia, come Capaci, si è saputo del telecomando, di come è stato posizionato l'esplosivo, di come è stato operato. Per via D'Amelio, nonostante le collaborazioni che ci sono state in Cosa Nostra, non si è saputo nulla".

La trattativa c'è stata?
"Fummo fermati, ci fu detto che tutto doveva passare nella mani dei carabinieri che stavano gestendo importanti collaborazioni. Ci hanno tolto tutto manu militari, ci hanno fatto rientrare nel gruppo Falcone-Borsellino, un fantoccio di cui la polizia non aveva alcun bisogno. Perchè aveva già la squadra mobile, la Criminalpol, e perchè i magistrati Cardella e Boccassini sono saltati dalla sedia e si sono messi di traverso minacciando le dimissioni dopo l'inspiegabile trasferimento di La Barbera al ministero dell'Interno, senza incarico, nell'immediatezza dell'arresto di Contrada e pochi giorni prima della cattura di Riina".
Fonte: IL SECOLO XIX

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Storie di ordinaria repressione


[ROMA] RAGAZZO UCCISO DOPO UN ARRESTO!!!
Rovereto: chi ha ucciso Stefano Frapporti?
Ragazzo di Piossasco stroncato dal gas nel carcere di Marassi. La madre: «Assassini»
[ROMA] RAGAZZO UCCISO DOPO UN ARRESTO!!!
Penso che questa notizia non abbia ancora ricevuto l'attenzione che meriti, infatti dopo Aldo Bianzino, la polizia commette un altro omicidio in carcere ai danni di un ragazzo fermato per possesso di droga (20 grammi, non era certo un narcos-colombiano). Di Proibizionismo si muore!!!
"Lo hanno arrestato, l'ho rivisto morto"
Arrestato per il possesso di 20 grammi di droga, muore dopo una
settimana. La sorella denuncia: è irriconoscibile, pieno di lividi
motro ragazzo fermato per possesso di droga
Lo hanno arrestato, l'ho rivisto morto
"Lo hanno arrestato, l'ho rivisto morto"
Arrestato per il possesso di 20 grammi di droga, muore dopo una
settimana. La sorella denuncia: è irriconoscibile, pieno di lividi
la notizia l'ha data il tg3 delle 19
con intervista video alla sorella del ragazzo

ecco l'intervista della sorella del ragazzo andata in onda sul tg3 --> http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-7b34b61c-e5cb-486...


Rovereto: chi ha ucciso Stefano Frapporti?
Tanto il carcere quanto il proibizionismo!
E' in fondo poco importante discernere se la responsabilità ultima sia dei Carabinieri - che molto probabilmente l'hanno pestato - spingendo l'uomo al suicidio, piuttosto che la paura di una perdita di onorabilità e continuazione di una vita normale. Quello che conta, è che una persona di 48 anni possa morire (in carcere!) per il semplice possesso di un po' di fumo.
Stefano Frapporti, muratore con una mano persa dopo un brutto incidente sul lavoro. Pare che sia stato fermato dai carabinieri mentre andava in bicicletta. Lo avrebbero perquisito, gli avrebbero trovato dell’hashish. A questo punto l’uomo è stato arrestato, dapprima condotto in caserma e poi al carcere di Rovereto dove gli è stata anche negata la possibilità di telefonare alla sorella che avrebbe potuto tranquillizzarlo. Circa due ore dopo si è tolto la vita con il cordoncino della tuta da ginnastica che indossava.
In risposta della morte di Stefano una trentina di solidali e amici ha bloccato oggi per ore alcune vie della città. Su uno striscione la scritta: "Stefano è stato ucciso. Carabinieri e carcere assassini". Dopo le strade, per circa venti minuti sono stati bloccati due treni in stazione e poi di nuovo un corteo spontaneo ha chiuso corso Rosmini (il viale principale di Rovereto) con materiale vario recuperato nei cantieri a fianco. Polizia e carabinieri, in assetto anti-sommossa - sono rimasti in disparte senza intervenire


Ragazzo di Piossasco stroncato dal gas nel carcere di Marassi. La madre: «Assassini»

Manuel Eliantonio, 22 anni, originario di Piossaco, è morto l’altra mattina nella struttura penitenziaria dov’era rinchiuso da quasi cinque mesi. Ucciso, dicono al Marassi, dal gas butano respirato da una bomboletta di gas da campeggio. Suicidio? «Forse un incidente», lasciano intendere dalla casa circondariale. Spiegando che il butano è spesso adoperato come droga dai detenuti.

Ma la madre di Manuel, Maria, urla: «Mio figlio lo hanno ammazzato. Lo hanno pestato a sangue e lo hanno stordito con psicofarmaci. Lo hanno ucciso, e stanno cercando di coprire tutto». Mostra l’ultima – nonché l’unica – lettera che il figlio le ha inviato dal carcere dov’era rinchiuso per una condanna a 5 mesi e dieci giorni. «Una storia da niente, resistenza a pubblico ufficiale», dice lei.

L’ultimo scritto di Manuel sono due paginette strappate da un quaderno a quadretti su cui c’è lo spaccato di una vita d’inferno. «Cara mamma, qui mi ammazzano di botte almeno una volta alla settimana. Adesso ho soltanto un occhio nero, ma di solito…». E ancora: «Mi riempiono di psicofarmaci. Quelli che riesco non li ingoio e appena posso li sputo. Ma se non li prendo mi ricattano con le lettere che devo fare». E ancora: «Sai, mi tengono in isolamento quattro giorni alla settimana, mangio poco e niente, sto male».

La notizia della morte di suo figlio, Maria l’ha avuta ieri mattina. (25/07/08, nde) Una telefonata dal carcere e l’annuncio: «Manuel è spirato stanotte». Disperata, è partita subito per Genova. In tarda serata è di nuovo a casa, dalla figlia più piccola. Ha gli occhi gonfi per tutte le lacrime che ha pianto, è stanca, disperata e distrutta. «Voglio andare fino in fondo a questa storia. Mio figlio era malato. Non avrebbe dovuto assumere psicofarmaci. Doveva essere curato, non sedato. Avrebbero dovuto portarlo in ospedale se stava male, non abbandonarlo in una cella, solo».

In quell’unica lettera ricevuta dal figlio, mamma Maria legge la disperazione di un ragazzo troppo a lungo maltrattato. «Doveva essere scarcerato il 5 agosto», racconta. «Quando la lettera è arrivata gli ho subito risposto con un telegramma: “Resisti, figlio mio. Resisti, è quasi finita”. Speravo di rivederlo tra qualche giorno, invece è arrivata soltanto quella maledetta telefonata da Marassi».

Il verbale della polizia penitenziaria racconta che Manuel si sarebbe stordito con il butano di una bomboletta adoperata per un fornelletto da campo che aveva in cella. Prassi assai abituale per detenuti con problemi di tossicodipendenza. Ma qualcosa è andato storto, l’intossicazione gli è stata fatale. Per chiarire i contorni di questa morte la Procura della repubblica ha già aperto un’inchiesta. Ci sarà un’autopsia, che dovrebbe chiarire tutti i dubbi. Anche quelli sollevati da mamma Maria.

Perché?

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Perché? E’ la domanda a cui dal 25 luglio dello scorso anno Maria, mamma di Manuel Eliantonio, morto a 22 anni nel carcere Marassi di Genova, chiede una risposta. Nonostante sia passato quasi un anno, a Maria non è dato ancora conoscere le cause che hanno portato al decesso di suo figlio. “A 10 mesi dalla sua morte – scrive sul suo blog – non mi è dato di sapere chi ha reso il corpo di mio figlio irriconoscibile, su quali basi gli sono stati somministrati forzatamente farmaci letali, quando mi sarà concesso di avere l’autopsia completa ufficiale sulle cause della morte“.

Manuel si trovava in carcere per scontare una condanna per resistenza a pubblico ufficiale. La notte del 23 dicembre del 2007 era in macchina con quattro amici quando la loro auto viene fermata dalla polizia stradale in un autogrill della Torino – Savona. Dalle analisi a cui i ragazzi vengono sottoposti, risulta che hanno assunto cannabis, cocaina e anfetamina. Manuel è l’unico che reagisce al fermo tentando di scappare e l’unico ad essere portato in carcere, dopo essere passato per la caserma di Savona. Viene scarcerato il 16 gennaio, quando gli vengono concessi gli arresti domiciliari in attesa del giudizio. Il 25 marzo torna in carcere a Savona per non aver rispettato gli obblighi di dimora e da quel momento, viene trasferito quattro volte: Chiavari, Torino, di nuovo Savona e infine Genova, dove resterà fino al 25 luglio 2008, giorno della sua morte.
Il referto del medico del carcere parla di decesso causato da «dinamica non definita e patologia non identificata». Il giorno dopo i giornali scrivono di un tossicodipendente morto in carcere dopo un’intossicazione da gas butano, sostanza che spesso i detenuti usano per sostituire altre droghe. Una versione dei fatti rilasciata dal carcere, ma che non sembra assolutamente stare in piedi. E’ vero infatti che Manuel aveva problemi di droga – da cui stava tentando di uscire: da qualche mese era infatti in cura presso il Sert – ma quando Maria all’obitorio, dopo le resistenze iniziali del personale del carcere, riesce a vedere il corpo di suo figlio, nota che è completamente coperto di lividi, con chiare tracce di sangue che dal naso salgono verso fronte e capelli. Segni che non può essere di certo stato il gas a lasciare, tanto più che Manuel ne era terrorizzato da quando era bambino, a causa di un incendio al forno di casa. “Da allora – spiega Maria – non si avvicinava più alla cucina, non ricaricava neanche un accendino”. Lo stesso Manuel, appena cinque giorni prima di morire, in una telefonata alla nonna aveva denunciato percosse e violenze subite in carcere. La telefonata viene però bruscamente interrotta dal centralino. Dopo quattro giorni Maria riceve una lettera, dove il ragazzo scrive “mi ammazzano di botte almeno una volta alla settimana. Ora ho solo un occhio nero, mi riempiono di psicofarmaci, quelli che riesco li risputo ma se non li prendo mi ricattano”. Il giorno dopo la terribile notizia della morte.

Una vicenda in cui nessuno sembra vederci chiaro, tant’è che lo stesso Consiglio Regionale della Liguria lo scorso ottobre ha votato all’unanimità un ordine del giorno che impegnava il Presidente e la Giunta ad intervenire presso le autorità di governo affinché venisse immediatamente avviata una commissione parlamentare d’inchiesta per fare chiarezza sulle cause della morte di Manuel. Ma fino ad oggi poco si è mosso. Maria aspetta ancora una verità che, anche se non le restituirà più Manuel, almeno servirà a fare giustizia. Aspetta ancora il momento in cui “la legge sarà uguale per tutti”.

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Nave dei veleni: manifestazione ad Amantea


Da Chiaiano a Crotone, da Maratea ad Aiello Calabro e Praia a Mare: si è ritrovato in massa ad Amantea il popolo che si ribella alla contaminazione dei veleni affondati nelle «navi a perdere» o sotterrati nelle valli dell'interno sulla base di quello che è ormai uno dei business di punta della 'ndrangheta.
In migliaia e migliaia, cittadini e studenti, ma anche autorità e sindaci, con tanto di fasce tricolori e gonfaloni, assieme a rappresentanti di associazioni (in prima fila Legambiente e Wwf), partiti e sindacati, hanno invaso la cittadina tirrenica diventata per un giorno la capitale di chi dice «no» all'avvelenamento di interi territori.

Nemmeno la pioggia, caduta ad intermittenza per tutta la mattinata, è riuscita a scoraggiare la marea umana scesa in piazza. Tanta era la voglia di sollecitare gli interventi immediati necessari per fare chiarezza sul carico della nave inabissata al largo di Cetraro o dei fusti interrati nella poco distante valle del fiume Oliva, dove si registra una mortalità per tumore più elevata del 10% rispetto alla norma. Rabbia e bisogno di verità. Sentimenti espressi nei tantissimi slogan urlati soprattutto dagli studenti, alcuni dei quali hanno anche indossato maschere antigas. «Giù le mani dalla Calabria», hanno scandito i ragazzi provenienti da tutta la regione, imbracciando cartelli con la scritta «Le scorie portatele in Parlamento».

Ad aprire il serpentone, colorato da bandiere, cappellini e palloncini che si sono librati nel cielo carico di nuvole, un grande striscione del «Comitato civico Natale De Grazia. Per non dimenticare». E proprio al capitano di fregata della Marina, scomparso improvvisamente nel 1995 mentre indagava per conto della Procura di Reggio Calabria sul business dei rifiuti radioattivi smaltiti in mare, è stato intitolato il lungomare di Amantea. La targa commemorativa è stata scoperta dalla vedova dell'ufficiale, Anna Vespia, accompagnata dal figlio Giovanni. «Avete dato valore - ha detto commossa la donna - al sacrificio di mio marito».

Di «legalità violentata» ha parlato il leader di Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, che ha sfilato in mezzo alle bandiere del suo partito. «Dobbiamo lavorare - ha detto Di Pietro - per risvegliare le coscienze. Il silenzio e l'omertà sono atteggiamenti mafiosi». Dura la presa di posizione anche del presidente della Regione Calabria, Agazio Loiero, che ha partecipato alla manifestazione. «Assistiamo qui - ha detto - ad un'insurrezione pacifica. I calabresi hanno diritto di sapere e questa risposta la deve dare lo Stato perchè noi siamo andati oltre le nostre competenze». In coincidenza con la mobilitazione di Amantea, è intervenuto il Ministro dell'Ambiente, Stefania Prestigiacomo, secondo cui «è irresponsabile la speculazione politica che pezzi della sinistra stanno conducendo sul caso delle cosiddette 'navi dei velenì. Credo che dinanzi ad una realtà di tale problematicità, la politica debba mostrare responsabilità e capacità di intervento» Per il grande afflusso di pullman e auto, come hanno fatto rilevare con soddisfazione gli organizzatori, è andata in tilt la circolazione lungo la statale 18.

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Palermo, udienza Dell’Utri: Gaspare Spatuzza, la nuova grana


Un attentato da compiere a Roma ai danni dei Carabinieri per ucciderne 10 o anche 100.
E’ il 1993, periodo di piena tangentopoli e a meno di un anno dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi in politica con Forza Italia, di cui Marcello Dell’Utri, all’epoca numero uno di Publitalia, era tra i fondatori.
Il sostituto procuratore Antonino Gatto, in aula davanti ai giudici della corte d’appello del tribunale di Palermo, dice che il sicario Gaspare Spatuzza, assieme a Cosimo Grovillo, dopo l’attentato di Firenze in via Georgofili in cui morì una bambina, si incontrò a Campofelice di Croccella con Giuseppe Graviano, che gli disse di avere in ballo una situazione a Roma e che se fosse andata bene avrebbero esultato anche tutti i carcerati.

Gli attentati di Firenze, quello intimidatorio a Maurizio Costanzo e quello in cui morì il giudice Paolo Borsellino, sembrano essere segnali che la mafia lancia allo Stato, e in particolare ai fondatori di Forza Italia.
L’attentato ai carabinieri sembra inquadrarsi in una vendetta nei confronti degli allora capitani De Donno e Mori, presunti mediatori fra l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, e l’allora ministro dell’Interno Nicola Mancino.

E’ Infatti in quel periodo che il boss Giuseppe Graviano si reca assieme ad un gruppo di complici a Roma per organizzare il luogo in cui far saltare in aria i militari dell’Arma, che secondo le dichiarazioni di Spatuzza doveva avere effetti devastanti e causare dai 10 ai 100 morti.
Gaspare Spatuzza nel gennaio del ‘94 incontra Graviano in un bar di Via Veneto, a Roma. Graviano esulta perché dice di aver ottenuto ciò che voleva. “Abbiamo il paese in mano grazie a persone serie ed affidabili, non come quei 4 castrazzi dei socialisti” dice. Le persone nuove sono “Silvio Berlusconi e il nostro compaesano Dell’utri”. Lo cita senza dire Marcello.

Per inciso, l’attentato al pullman pieno di carabinieri nei pressi dello stadio Olimpico di Roma il 31 ottobre 1993, secondo le dichiarazioni di Spatuzza pubblicate anche su L’Espresso di oggi, fallisce per un difetto del detonatore che non si aziona.
Insomma, Antonino Gatto chiude la sua requisitoria chiedendo ai giudici di acqusire agli atti le dichiarazioni sopra citate di Spatuzza, perché dimostrerebbero la colpevolezza del senatore del Pdl.

Il clima in aula si fa rovente, le difese chiedono rinvio dell’udienza per esaminare gli atti.
Nella sua arringa l’avvocato Nino Mormino parla di processo mediatico e di inquinamento istituzionale, frase che farà andare su tutte le furie il sostituto Antonino Gatto.
L’avvocato Alessandro Sammarco parla di azione criminosa da parte dell’Espresso che pubblica i verbali “secretati” delle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, e chiede alla corte di proteggere le regole del processo da chi cerca di forzarne il decorso con bugie di personaggi poco affidabili.

L’udienza si chiude alle 11:30, il senatore Dell’Utri che secondo i suoi avvocati avrebbe dovuto rendere dichiarazioni spontanee, non ha aperto bocca.
Si è lasciato intervistare all’uscita dall’aula rispondendo come al solito: non so, non conosco, non ne ho idea.
L’idea sembrano averla i pentiti, i Ciancimino e i papelli.
Venerdì prossimo toccherà alle difese dare la loro versione sulle dichiarazioni di Spatuzza rilasciate nel suo processo in corso sempre qui, a Palermo

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Marrazzo incastrato, sospetti sui servizi deviati di Berlusconi


La vicenda di Piero Marrazzo, che lo ha portato oggi all'autosospensione, preludio alle dimissioni, puzza tanto di servizi "deviati" di Berlusconi, che da tempo sta lanciando i suoi fascicoli pieni di merda ( vedi caso Boffo e anche Caso Augias)..
Forse il premier così spera di far dimenticare le sue "marachelle" (corruzione di minorenni, induzione alla prostituzione, traffico di stupefacenti, ecc.)
Lo hanno incastrato, sicuramente.
Purtroppo Piero Marrazzo, giornalista simbolo di tante lotte per i diritti dei consumatori e oggi presidente della Regione Lazio, è stato ricattato per un video in cui sarebbe ritratto in atteggiamenti intimi con un trans, a pochi mesi dal voto regionale. Così si è dimesso.
I giudici devono fare chiarezza sul motivo per il quale quei quattro carabinieri gli hanno teso questa orrenda trappola.
I servizi segreti? La polizia deviata? Supposizioni ma le modalità di questa imboscata non presuppongono nulla di buono. D’altronde a marzo si vota nel Lazio e screditare così un governatore che, pure non esaltando, aveva guidato la regione seriamente, è l’unico triste e violento modo.

Nel luglio scorso nell’appartamento di un transessuale i carabinieri avrebbero filmato Piero Marrazzo, seminudo, in compagnia del trans. Indovinate un po’ la via e il condominio di questa abitazione? Via Gradoli 96 a Roma, guarda caso nello stesso condominio dove nel 1978 fu scoperto un covo delle Br utilizzato dai terroristi come base per il sequestro di Aldo Moro. Una coincidenza da far venire i brividi, pensando ai sospetti che circondano la vicenda Moro, a partire dalla presenza di servizi segreti all’interno della cellula che rapì il presidente Dc. E poi perché dei carabinieri mettono sotto controllo la casa di un trans e fanno irruzione con telecamera in spalla? Ma quale delinquenza comune!

Al di là di congetture ed ipotesi, Marrazzo ha sbagliato a pagare (sembra abbia elargito assegni per 20mila euro) i propri ricattatori senza denunciare e poi, cosa più grave, aver mentito ai propri elettori, anche se comprensibilmente. Ora le sue dimissioni sono la conclusione “normale” di tutta questa vicenda. “Mi auto-sospendo, questa vicenda è frutto di una mia debolezza della vita privata”, spiega.

I poteri passano ora al vice-presidente Esterino Montino, scongiurando così il rischio di elezioni anticipate. “Nelle condizioni di vittima in cui mi sono trovato ho sempre avuto come obiettivo principale quello di tutelare la mia famiglia e i miei affetti più cari. Gli errori che ho compiuto non hanno in alcun modo interferito nella mia attività politica e di governo. Con questa scelta apro un percorso che porti alle mie dimissioni”, conclude.

Marrazzo si è dimesso perché ricattabile e quindi non più capace di svolgere il suo compito appieno e con serenità.
Chissà quando Berlusconi farà lo stesso. Attendiamo risposte.

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martedì 20 ottobre 2009

Libertà di stampa. L’Italia sempre più giù


Siamo scesi al 49° posto. Il rapporto annuale di “Reporters sans Frontieres” denuncia un peggioramento in molti paesi dell’occidente. Dopo di noi di noi solo Israele
L’Italia scende ancora nella classifica stilata da “RSF” sulla libertà di stampa nel mondo e, dalla 44 esima posizione dello scorso anno, nel 2009 si piazza al 49° posto. Il peggioramento, come si vede, purtroppo, è - oltre che rapido - anche progressivo se solo si pensa che, appena due anni fa, nel 2007, era 35 esima arrivando, così, a perdere ben 14 posizioni in tre anni.

Insomma, a leggere i dati di Reporters Sans Frontieres - l’organizzazione internazionale che difende la libertà di stampa in tutto il mondo, a prescindere dalle idee politiche espresse dai giornalisti - sembra che non siano troppo lontane dal vero, quelle decine di migliaia di persone che, appena qualche settimane fa, a Roma, sono scese in piazza per difendere l’art. 21 della costituzione sconcertati e preoccupati per i pericoli che sta correndo “la libera manifestazione del pensiero” nel nostro Paese.

Ma approfondendo l’analisi dei dati pubblicati oggi, appare evidente che la libertà di stampa sembra ancora molto lontana dall’essere un valore universalmente riconosciuto e realizzato anche nel resto dell’occidente libero e opulento. L'annuale rapporto di RSF, infatti, fornisce un quadro sconfortante, con situazioni che peggiorano in vari Paesi, soprattutto nel democratico occidente e nella vecchia Europa.

In testa alla classifica, si confermano le democrazie nordiche con, al primo posto, la Danimarca, seguita da Finlandia, Irlanda, Norvegia, Svezia, Estonia e Olanda. All’8° posto, stabile, la Svizzera, seguita, in calo dall’Islanda e in salita di un posto dalla Lituania. L’Austria è solo 13a mentre la Germania è 18a e la Francia, 43a appena prima della Slovacchia. Ultima classificata, su 175 nazioni monitorate, l’Eritrea preceduta, nell’ordine da Nord Corea, Turkmenistan e Iran. Tra i dati di maggior rilievo nel “Rapporto” vi è, poi, il ripristino della libertà di stampa negli Stati Uniti - passati dal 40° al 20° posto - a meno di un anno dall’insediamento di Barack Obama e il peggioramento della situazione in paesi come Iran (172 esimo) e Israele (93° posto nel suo territorio e 150° nei territori occupati.

Presentando il rapporto, il presidente di RSF, Jean-François Julliard, non ha celato la sua preoccupazione per quanto riguarda la situazione europea, dove diversi paesi, mostrano un progressivo restringersi degli spazi per la libertà di stampa. “È inquietante constatare - ha detto - come, anno dopo anno, importanti democrazie europee come Francia, Italia, Slovacchia perdano progressivamente posizioni. L’Europa dovrebbe essere d’esempio sul fronte delle libertà pubbliche. Come possiamo denunciare - ha concluso Julliard - le varie violazioni nel mondo se non siamo irreprensibili noi stessi in prima persona?”.

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domenica 18 ottobre 2009

Manifestazione nazionale antirazzista: in duecentomila invadono le strade di Roma


Contro il razzismo, i respingimenti e il reato di clandestinità, diritti di cittadinanza e libertà per tutti
Una giornata straordinaria quella che abbiamo vissuto, costruito e attraversato oggi: centinaia di migliaia di migranti, studenti, precari, cittadini che hanno scelto di attraversare la giornata antirazzista con un corteo che ha invaso le strade di Roma.

Una giornata che disegna nuove possibilità a partire dalla sperimentazione di un percorso comune da inventare assieme, a partire dalle ottime premesse di oggi. Dalla Sapienza è partito uno spezzone, ricchissimo e molto vasto, che ha scelto di rilanciare da un luogo simbolo dell’Onda un percorso che intrecci le lotte dei migranti e quelle degli studenti, dei precari.

La manifestazione di oggi non è stata una semplice testimonianza contro il razzismo, ma una giornata di conflitto che dà inizio alla sperimentazione di una forma reale di ricomposizione sociale per contratsare il razzismo, lo sfruttamento, la precarizzazione che come studenti, come migranti, come precari, come lavoratori viviamo, nelle differenze, in maniera comune.

Oggi scendere in piazza contro lo smantellamento dell’università e per un nuovo welfare, per la sanatoria e per la chiusura dei CIE, è una battaglia che riguarda la questione della ridefinizione della cittadinanza: i diritti di cittadinanza non sono questioni semplicemente formali, ma riguardano la qualità della vita e la dignità delle persone che vivono questo paese, che rifiutano il modello di governo della crisi che Maroni e Berlusconi tentano di applicare.

Se dal Veneto è giunta l’intuizione del “Veneto libero dal razzismo e dalla paura”, intuizione che diventa conflitto e composizione larga, non identitaria e non chiusa, attraverso cui costruire l’opposizione al razzismo e alle politiche securitarie, la scommessa è oggi dichiarare tutti i nostri territori e l’intera Europa libera dal razzismo, a partire dalla battaglia contro la gestione delle migrazioni, il ricatto che sui migranti si abbatte.
La mobilitazione non finisce con il corteo di oggi, perché oggi i migranti hanno lanciato una mobilitazione ad oltranza per l’allargamento della sanatoria a tutti.

E’ quello il tema, ribadire e rivendicare non solo la libertà di movimento, ma anche la libertà di decidere dove rimanere, quanto rimanere, dove costruire la propria vita in base ai propri desideri.

La lotta dei migranti contro il pacchetto sicurezza è una lotta di tutti, perché le restrizioni delle libertà, il ricatto e la gerarchizzazione sociale imposta dal capitale colpisce tutti, riguarda in prima persona tutti quanti. Da questo si può e si deve ripartire, per far si che la grande giornata di oggi sia solo l’inizio di un percorso di libertà che riguardi tutti quanti, che sfida i governi per ribadire che noi la crisi non solo non la paghiamo ma la vogliamo creare ai governi, respingendo il razzismo e la precarietà.

Combattere il razzismo è oggi una battaglia culturale nel paese delle aggressioni e dei respingimenti, ma è soprattutto lotta di classe contro il ricatto capitalistico. E’ ribellione alla crisi e ridefinizione della cittadinanza, a partire dal protagonismo di tutti.


E’ solo l’inizio, tutto il resto è da inventare assieme!

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sabato 17 ottobre 2009

Abruzzo: subappalti in mano alla mafia


L’Aquila. La mafia è riuscita ad infiltrasi anche nei lavori di ricostruzione dell’Abruzzo. Lo confermano gli uomini della Dia nel rapporto consegnato recentemente al Procuratore capo dell’Aquila Alfredo Rossini.
Infatti, quando ieri una delegazione della Commissione parlamentare antimafia presieduta da Giuseppe Pisanu si è presentata in città non ha potuto fare altro che confermare “alcune irregolarità” nei cantieri abruzzesi sottolineando la necessità di effettuare “verifiche costanti su chi ha ottenuto i lavori”. Il riferimento è alle ditte appaltatrici del progetto C.a.s.e. (che sta per Complessi Antisismici Sostenibili Ecocompatibili) alle quali è stato revocato il certificato antimafia. Sotto i riflettori è finita l’Igc, Impresa Generale Costruzioni di Gela, riconducibile alla famiglia dei Rinzivillo, vicini al capomafia di Cosa Nostra Piddu Madonia. La società ha eseguito in sub-appalto lavori di ricostruzione nel cantiere di Bazzano per 159.300 euro.
La capofila però è la Edimal che si è aggiudicata la fetta più grande dei lavori di ricostruzione per 54.817 milioni di euro e ha poi affidato a ditte minori opere per 21.754 milioni. Quando il 4 ottobre scorso all’Igc è stata revocata l’autorizzazione l’azienda aveva già fatto parecchi lavori ed era in procinto di ricevere altre commesse dal Consorzio Edimal. L’impresa tra l’altro aveva vinto appalti pubblici delle grandi opere come la nuova metropolitana “M5” di Milano, la Tav nella tratta Parma-Reggio Emilia, i lavori per due gallerie dell’autostrada Catania -Siracusa
All’inizio di settembre è stata cancellata dall’elenco di sedici imprese ammesse ai lavori di ricostruzione anche la ditta “Fontana costruzioni spa” che aveva rapporti con la famiglia di Michele e Pasquale Zagaria della famiglia dei casalesi. Sempre a settembre il prefetto dell’Aquila, Franco Gabrielli ha ritirato preventivamente il certificato antimafia all’impresa “Di Marco srl” di Carsoli che aveva vinto il primo subappalto per la costruzione dell’Aquila. Amministratore unico della società è Dante Di Marco, socio fondatore anche di un’altra impresa con Achille Ricci arrestato per aver riciclato una parte dei soldi di Don Vito Ciancimino in un villaggio turistico a Tagliacozzo.

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Resistenza e revisioni storiche: cazzi nostri


Chi mi conosce sa che non mi sono mai stracciato le vesti sbraitando contro i "revisionismi", né ho mai presidiato i mausolei della Memoria Storica.
Il passato va rimesso in gioco, costantemente, radicalmente. Non si può che essere revisionisti, nel senso che bisogna ri-vedere, adottare nuovi sguardi, giocare d'anticipo. .
E con me tanti antifascisti conseguenti ( come si diceva una volta….) o piuttosto semplicemente coerenti.
Siamo una "stecca" nel coro di proteste indignate contro Storace e la sua proposta da Min.Cul.Pop., ma è il coro che stona, non noi.
Questa querelle è solo la più recente conseguenza di gravi errori della sinistra, in particolare di quella istituzionale, togliattiana, il filo nero della realpolitik che va dal PCI ai DS.
Per decenni ci è stata proposta una stucchevole oleografia, "pedagogia resistenziale" fondata sull'edulcorazione, rimozione degli aspetti più controversi della guerra partigiana a vantaggio di una rappresentazione patriottica-frontista sciapa come il testo di "Bella ciao" (c'erano canzoni partigiane molto più forti e belle, da "Pietà l'è morta" alla "Badoglieide").
Nel 1990 le facoltà occupate pullulavano di superficiali cultori di una non-violenza a-storica, trascendentale; ebbene, a volte capitava di sentirli cantare "Bella ciao", e se gli facevi notare che i partigiani erano armati, sparavano, condannavano a morte, ecco che gli sguardi si spegnevano. La Resistenza era diventata uno dei tanti elementi di un'identità di sinistra fai-da-te, annacquata, buonista, tipo foto del Che Guevara incollata su una pagina della Smemoranda (il Che era un guerriero coriaceo e spietato, altro che non-violenza!).
In questa ricostruzione sembra quasi che i partigiani non sparassero, non fucilassero, non spargessero sangue né toccasse loro rimestare nelle interiora umane.
Effetto boomerang: l'edulcorazione fa il gioco dell'avversario, che non fatica a rovesciarla in demonizzazione. La destra propone come oggetto di scandalo il fatto che i partigiani... uccidessero. Bella scoperta!
Eppure è una scoperta, o perlomeno una riscoperta.
Le foibe, le esecuzioni sommarie di Moranino, il "Triangolo della Morte"... Tutte cose perfettamente comprensibili, una volta inserite nel contesto di uno scontro violentissimo, guerra civile fatta di torture e rappresaglie, dove ci si doveva difendere da spie e infiltrati e c'era poco tempo per il "garantismo". "Nel dubbio sopprimete". Una cosa tanto all'ordine del giorno che tocca farla anche al partigiano Johnny (di cui molti parlano bene senza aver letto il libro).
Certo, ci andarono di mezzo anche degli innocenti, perché l'odio può farti volare col pilota automatico e la guerra (qualsiasi guerra) non fa sconti a nessuno. Questo non autorizza gli eredi delle Brigate Nere - che il pilota automatico non lo staccarono mai - a farci discorsi ex cathedra.
[N.B. I suddetti innocenti non erano mica tutti anticomunisti: c'erano anche un trotzkista (Pietro Tresso) e qualcuno della Sinistra Comunista. Ci furono (per fortuna pochi) episodi di "fratricidio", come nella guerra civile spagnola. Ma questi - per dirla con Vitaliano Ravagli - "son poi cazzi nostri".]
Le foibe, poi... guai a narrare gli antefatti, sennò diverrebbe comprensibile la reazione degli sloveni dopo angherie, espropriazioni di terre, rastrellamenti, persecuzioni razziste da parte del regime d'occupazione italiano che li considerava uentermenschen, subumani. Quanti libri sulla guerra partigiana fanno davvero sentire il tanfo di morte e di merda, vermi che rimestano nelle piaghe aperte, esalazioni di viscere putrefatte?
E' colpa della sinistra storica, delle eccessive cautele consociative del Partito "di lotta e di governo", se tutto questo non è senso comune: l'uso della violenza andava spiegato, se non sempre rivendicato, con chiarezza e decisione, anche per quel che riguarda gli episodi "equivoci". Se rimuovi parti della tua storia, sarà il nemico a impadronirsene per riscriverla in toto. Se improvvisi a vanvera sul tema della "riconciliazione" e sulle "ragioni" di chi stava dall'altra parte, con SS e repubblichini, non puoi aspettarti che i loro discendenti ti ricambino la cortesia. Se abbassi la guardia, l'avversario ti colpisce più duro.
A questo punto non serve a niente arroccarsi, stare sulla difensiva: al contrario, occorre rimettere tutto in gioco, scavare, trovare e raccontare storie a suo tempo accantonate perché non trovavano posto nell'antinomia santificazione/demonizzazione. Restituire al passato la sua complessità. E' quello che abbiamo cercato di fare lavorando con Vitaliano Ravagli, è quello che continueremo a fare in futuro.
Complessità. Quanti sanno che l'attuale vulgata sulla Resistenza non risale più indietro degli anni Sessanta, e che le celebrazioni istituzionali si imposero col primo centrosinistra, quando la DC allargò la coalizione governativa al PSI di Nenni? Prima c'erano stati vent'anni di rimozione, epurazione al contrario, repressione anti-partigiana che aveva costretto all'espatrio centinaia e centinaia di compagni. Forse la repressione è stata interiorizzata, a un certo punto è diventata auto-repressione. Ci sono storie di allora e di oggi che mettono alla prova chi le ascolta, tradiscono ogni aspettativa, ce la sbattono in faccia, la complessità.
La storia di Angiolo Gracci "Gracco", comandante partigiano della Brigata Garibaldi "Vittorio Sinigaglia", medaglia d'argento al valore militare, liberatore di Firenze, sospeso dall'ANPI per aver attaccato la NATO durante un discorso commemorativo (25 giugno u.s., 56° anniversario della battaglia di Pian d'Albero, presso Figline Valdarno).
La storia di Spartaco Perini, oggi pluriottantenne, fondatore della Resistenza ad Ascoli, medaglia d'argento, perseguitato prima, durante e dopo la guerra, fuoriuscito dall'ANPI che lui stesso aveva fondato, isolato in città per i suoi attacchi alla giunta di destra e la sua vicinanza all'ambiente dei centri sociali. Ce ne sono, di asce di guerra sepolte pochi centimetri sotto i nostri piedi. La sensazione di noia che ci ha sempre invasi nel sentir parlare di Resistenza ci ha a lungo impedito di considerarla una guerriglia. Tutte le generazioni successive della sinistra hanno desiderato sentirsi parte di una comunità aperta, transnazionale e trans-epocale, basata sulla condivisione di un immaginario combattente... La "pedagogia resistenziale" ha sottratto materia prima a quest'importante processo mitopoietico, e si è dovuti ricorrere alle importazioni dal Terzo Mondo (non sempre materiali di prima scelta, peraltro).
Oggi più che mai, di queste cose non si dovrebbe parlare, sono estranee alla realpolitik, non fanno pendant col ghigno di Piacione, le serate al Jackie O' di Roma, il catamarano di D'Alema, Bertinotti in prima fila ai concerti di Venditti...

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venerdì 16 ottobre 2009

NO AL RAZZISMO


17 OTTOBRE Manifestazione Nazionale Antirazzista
Il 7 ottobre del 1989 centinaia di migliaia di persone scendevano in piazza a Roma per la prima grande manifestazione contro il razzismo. Il 24 agosto dello stesso anno a Villa Literno, in provincia di Caserta, era stato ucciso un rifugiato sudafricano, Jerry Essan Masslo.
A 20 anni di distanza, il razzismo non è stato sconfitto, continua a provocare vittime e viene alimentato dalle politiche del governo Berlusconi. Il pacchetto sicurezza approvato dalla maggioranza di centro destra risponde ad un intento persecutorio, introducendo il reato di “immigrazione clandestina” e un complesso di norme che peggiorano le condizioni di vita dei migranti, ne ledono la dignità umana e i diritti fondamentali.
Questa drammatica situazione sta pericolosamente incoraggiando e legittimando nella società la paura e la violenza nei confronti di ogni diversità.
Intanto, nel canale di Sicilia, ormai diventato un vero e proprio cimitero marino, continuano a morire centinaia di esseri umani che cercano di raggiungere le nostre coste.
E’ il momento di reagire e costruire insieme una grande risposta di lotta e solidarietà per difendere i diritti di tutte e tutti rifiutando ogni forma di discriminazione e per fermare il dilagare del razzismo.
Pertanto facciamo appello a tutte le associazioni laiche e religiose, alle organizzazioni sindacali, sociali e politiche, a tutti i movimenti a ogni persona a scendere in piazza il 17 ottobre per dare vita ad una grande manifestazione popolare in grado di dare voce e visibilità ai migranti e all’Italia che non accetta il razzismo sulla base di queste parole d’ordine׃

• No al razzismo
• Regolarizzazione generalizzata per tutti
• Abrogazione del pacchetto sicurezza
• Accoglienza e diritti per tutti
• No ai respingimenti e agli accordi bilaterali che li prevedono
• Rottura netta del legame tra il permesso di soggiorno e il contratto di lavoro
• Diritto di asilo per rifugiati e profughi
• Chiusura definitiva dei Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE)
• No alla contrapposizione fra italiani e stranieri nell’accesso ai diritti
• Diritto al lavoro, alla salute, alla casa e all’istruzione per tutte e tutti
• Mantenimento del permesso di soggiorno per chi ha perso il lavoro
• Contro ogni forma di discriminazione nei confronti delle persone gay, lesbiche, transgender.
• A fianco di tutti i lavoratori e le lavoratrici in lotta per la difesa del posto di lavoro

Comitato 17 ottobre

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Berlusconi: su giustizia riforma costituzionale, deciderà popolo


Uno schiaffo alla Rai e uno alla Consulta, ma soprattutto una promessa o meglio una MINACCIA
andremo avanti con la riforma costituzionale della giustizia, anche a maggioranza e pronti a sostenere il vaglio di un referendum confermativo. E' il programma esposto da Silvio Berlusconi durante la sua visita a Sofia, una trasferta che serve al Cavaliere anche per rilanciare sull'immunità parlamentare modificata nel 1993 sull'onda di Tangentopoli e che ora da più parti si chiede di reintrodurre.

Sulla giustizia Berlusconi è netto: Occorre "prendere il toro per le corna", la riforma della giustizia "non è cosa facile: Io sono per esempio per una riforma della Costituzione che faccia del nostro Paese una democrazia vera non soggetta al potere di un ordine che non ha legittimazione elettorale". La maggioranza non si sente obbligata a perseguire larghe intese: "Vedremo come sarà possibile fare". Anche perché il Cavaliere confessa di nutrire poche speranze rispetto alla possibilità di aprire un dialogo con l'opposizione.

Anche sull'immunità parlamentare è necessario discutere, secondo Berlusconi: "Non credo che si possa andare avanti così, sono fermamente intenzionato a cambiare le cose". La Consulta resta nel mirino del Cavaliere: con la bocciatura del Lodo Alfano la Corte costituzionale "ha detto ai pm rossi di Milano riaprite la caccia all'uomo nei confronti del premier".

E sempre da Sofia, sede dell'ormai celebre 'editto bulgaro' contro Biagi, Santoro e Luttazzi, Berlusconi torna a parlare di Rai, lanciandosi in una previsione: Se andrà avanti così oltre il 50 per cento degli italiani potrebbe decidere di non pagare più il canone

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E POI PANNELLA PARLA DI MAFIA... Con la voce e le tasca di Pippo Calò!


[..] Ha verbalizzato Francesco Marino Mannoia (come si legge nella sentenza-ordinanza per l'omicidio di Salvo Lima):
«Intendo dire che nel passato generalmente Cosa nostra votava per la Democrazia cristiana ma che non vi erano particolari pressioni od organizzazioni elettorali per votare quel partito.

Nelle elezioni politiche invece, che credo si siano svolte nel 1987, è arrivato all'interno del carcere un ordine preciso con cui si responsabilizzavano tutti gli uomini d'onore affinché si votasse e si facesse votare, a familiari ed amici, per il Partito socialista italiano.

Inoltre, un po' prima, quando occorreva che il Partito radicale per non sciogliersi doveva raggiungere 10.000 iscrizioni, dentro il carcere, a Palermo, ci siamo quotati su iniziativa di Calò Pippo. Quest'ultimo ha versato 100 milioni a detto partito; la famiglia di Santa Maria del Gesù ha versato 50 milioni di cui 30 esborsati direttamente da Bontate Giovanni; io ho versato soltanto 1.000.000 di lire, corrispondenti se mal non ricordo a più di quattro iscrizioni; mio cugino Vernengo Pietro ha versato 5 milioni.

Faccio presente che l'iniziativa di finanziamento del Partito radicale è stata esclusivamente interna al carcere dell'Ucciardone, anche se i finanziamenti sono stati raccolti anche all'esterno, mentre, per quanto concerne l'appoggio elettorale al Psi, l'ordine era generalizzato a tutta Cosa nostra in Sicilia».

Nel 1987 il Psi e i radicali, sull'onda del «Caso Tortora», stavano conducendo già da tempo una campagna referendaria sul tema della «giustizia giusta» e quindi i mafiosi li hanno sostenuti nella lotta contro la Magistratura impegnata in delicate inchieste di mafia e affari, mafia e sue collusioni con settori dello Stato.

Sandro Provvisionato, Segreti di mafia, Laterza 1994, p. 265

(D'altronde Pannella peraltro tentò di candidare nelle sue liste nientemeno che Licio Gelli, il capo della famigerata P2).

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giovedì 15 ottobre 2009

Afghanistan: il Times accusa l'Italia di aver dato mazzette ai talebani


I servizi segreti italiani avrebbero pagato migliaia di dollari ai comandanti Talebani per evitare gli attacchi terroristici a Sarobi, a est di Kabul, e nella provincia di Herat.La Russa denuncia il Times. Per Cossiga lecita l'operazione dei servizi segreti italiani
I servizi segreti italiani avrebbero pagato migliaia di dollari ai comandanti Talebani per evitare gli attacchi terroristici a Sarobi, a est di Kabul, e nella provincia di Herat.

Questo è quanto emerge dall'articolo pubblicato quest'oggi dal quotidiano inglese Times, secondo il quale il governo italiano avrebbe consegnato ai ribelli locali delle vere e proprie mazzette per mantenere una sorta di calma belligerante. Il Times riporta il drammatico episodio del giugno 2008, quando dieci soldati francesi rimasero uccisi in un'imboscata a Sarobi, un'area da sempre sostenuta tranquilla, il cui controllo, un mese prima che arrivasse il contingente d'oltralpe era sotto l'affidamento dei militari italiani.

A rivelare il pagamento di queste "bustarelle" versate ai comandanti talebani sarebbero stati alcuni ufficiali militari occidentali. "Può pure avere senso comprare gruppi locali e usare mezzi non violenti per mantenere basso il livello di violenza, - scrive il Times - ma è follia fare così e non informare i propri alleati". La stessa intelligence statunitense, appare nell'articolo, scoprì attraverso le intercettazioni telefoniche che iservizi segreti italiani pagavano i ribelli anche nella provincia di Herat e per questo l'ambasciata USA protestò con il governo di Berlusconi nel giugno del 2008.

Nessuno all'epoca avrebbe saputo di tale operazione, nemmeno i colleghi francesi e proprio per questo il giornale inglese attribuisce una grave responsabilità al governo italiano che avrebbe mantenuto il silenzio sui veri motivi del clima di pace apparente che aleggiava su quel territorio.

Immediata la reazione di Palazzo Chigi che in una nota precisa di non avere "mai autorizzato nè consentito alcuna forma di pagamento di somme di danaro in favore di membri dell'insorgenza di matrice talebana in Afghanistan". Accuse ingiustificate secondo il governo italiano, poichè "proprio in quell'area nella prima metà dell'anno 2008 i contingenti italiani schierati in Afghanistan subirono numerosi attacchi e, specificamente nell'area del distretto di Surobi, il 13 febbraio 2008, nel corso di uno di questi è rimasto ucciso il Sottotenente Francesco Pezzulo".
Più dura la risposta del ministro della Difesa, Ignazio La Russa il quale reputa infondate le informazioni diffuse dal Time ritenute addirittura "spazzatura" e riferisce di aver dato l'incarico di procedere per denunciare l'autorevole quotidiano britannico.

Dello stesso avviso anche il vice presidente della Wolesi Jirga, la camera bassa del Parlamento afghano, Fawzia Koofi, che ritiene impossibile quanto riportato quest'oggi dal Times.
"In Afghanistan - secondo Koofi - circolano molte accuse tra le forze Nato, con i Paesi che puntano il dito uno contro l'altro, ma solitamente si tratta di accuse prive di fondamento"
Per il presidente del comitato Schengen Margherita Boniver si tratta di "Accuse stantie che ricordano analoghe considerazioni rivolte sempre ai nostri governi negli anni '80, accusati di essere conniventi con il terrorismo palestinese per mettere a riparo il nostro territorio".

Ma non tutti la pensano sono allineati con le affermazioni della maggioranza. Fabio Evangelisti, vicepresidente dell'Italia dei valori alla Camera parla di una vicenda dai contorni gravi e degni della massima attenzione. Secondo l'esponente dell'Idv non sono sufficienti le affermazioni di La Russa a dissipare i dubbi e ha chiesto che il governo riferisca il prima possibile in Aula su questa vicenda e sul ruolo che avrebbero avuto i nostri servizi segreti.

Lascia una certa inquietudine, invece, la reazione del presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga, che definisce i versamenti delle mazzette come una soluzione possibile e lecita e per questo ha espresso il proprio rammarico per la smentita del governo italiano sulle notizie pubblicate dal Times. La smentita secondo il senatore a vita "se presa sul serio dagli ambienti dei Taleban e di Al Qaeda, può essere causa di rappresaglie sul territorio afghano e anche su quello nazionale. Ma oso sperare -ha sottolineato Cossiga- che dietro istruzioni del governo, agenti dell'Aise del Ris-pm abbiano in loco o via Unifil-Hezbollah-Iran-Pakistan, dato assicurazioni ai Taleban e ad Al Qaeda che nulla è mutato e muterà".

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Il mafioso pentito su Alfano: "Il padre mi ha chiesto voti"


"Il padre di Alfano mi ha chiesto voti per Angelino". Lo avrebbe detto il boss mafioso Giovanni Alongi, rappresentante della famiglia di Aragona.
Lo riferisce Ignazio Gagliardo, pentito di mafia di Racalmuto (Agrigento), sentito come imputato di reato connesso nell'inchiesta-bis su Totò Cuffaro, imputato di favoreggiamento e rivelazione di segreti e che rischia un processo pure per concorso esterno. Secondo Gagliardo alcuni mafiosi in carcere (come Ciccio Mormina, Pasquale Fanara, Limblici, Vella Francesco), nel commentare gli annunci del Governo di iniziative contro Cosa Nostra si dimostravano particolarmente irritati: "Ora facciamo schifo - erano i commenti ascoltati da Gagliardo in carcere - ma non lo facevamo prima, quando ci chiedevano voti". Alfano ha replicato sostenendo che la Mafia gli ha prima mandato proiettili e ora si affida a "veleni e dichiarazioni prive di alcun riscontro" per colpire il governo Berlusconi e la sua durissima politica antimafia.

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mercoledì 14 ottobre 2009

Ponte subito! Cura del territorio mai!


Berlusconi ha ribadito che la costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina (non la risistemazione del martoriato territorio messinese ed italiano) rappresenta una priorità dello Stato. Parlando ad un convegno a Villa Madama con i vertici di Adr e Sea sullo sviluppo del sistema aeroportuale di Roma e Milano, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha dimostrato una volta di più, nel caso ce ne fosse stato ancora bisogno, l’assoluta miopia attraverso la quale le istituzioni guardano ai problemi del paese.

Nonostante le ferite relative alla recente alluvione di Messina siano ancora aperte e sanguinanti, il Cavaliere si è infatti affrettato nel rassicurare i siciliani e gli italiani tutti, in merito al fatto che la costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina (non la risistemazione del martoriato territorio messinese ed italiano) rappresenta una priorità dello Stato. Annunciando che l’inizio dei lavori per la costruzione della grande opera che verrà a costare ai contribuenti italiani probabilmente molto più dei 6,1 miliardi di euro previsti, sarebbe ormai imminente, dal momento che i cantieri apriranno i battenti già a dicembre o gennaio. Aggiungendo poi che la pesante situazione del debito pubblico non deve costituire un disincentivo alla costruzione delle infrastrutture di cui il paese “ha bisogno”. Ignorando completamente l’unica “grande opera” indispensabile all’Italia, costituita dalla riqualificazione e messa in sicurezza di un territorio in stato degenerativo sempre più preoccupante. E ripromettendosi infine d’intervenire su quelle procedure (cattive) che oggi rallentano la prosecuzione dei progetti, con lo scopo di ridurre ad un terzo gli attuali tempi necessari per autorizzazioni (come la VIA) che il premier considera mere pratiche burocratiche.

Mentre l’Italia sta letteralmente “franando”, settimanalmente (l’ultimo caso riguarda il bresciano) finisce sott’acqua, ospita i propri figli all’interno di scuole fatiscenti i cui soffitti cadono con regolarità disarmante, respira quell’amianto abbandonato dappertutto poiché (si racconta) mancano i soldi per le bonifiche, viaggia per mezzo di un sistema ferroviario degno del terzo mondo e continua ad invorticarsi in una crisi economica sempre più pesante, la politica s’impegna ad inaugurare (senza avere neppure i denari per poterlo fare) opere faraoniche destinate a regalare profitto ad Impregilo e soci e nulla più. Davvero uno strano paese, figlio della demagogia e di cortocircuiti logici sempre più evidenti.

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Genova G8 2001 : nessuna giustizia è fatta


FINALMENTE ABBIAMO I "COLPEVOLI" PER GENOVA 2001.. C'hanno messo 8 anni per ribaltare la storia, la nostra storia, riscrivendola a modo loro. A 48 ore dall'ambigua assoluzione del gran capo bipartisan della polizia, lo stato si vendica e condanna a 100 anni di carcere 11 attivist* facendo leva strumentalmente sul reato di "devastazione e saccheggio" e su un all'argato concetto di concorso morale, ignorato nei processi alla forze dell'ordine. Sono loro che hanno messo a ferro e fuoco Genova, attraverso cariche, pestaggi, violenze, le torture della Bolzaneto come la mattanza della Diaz, fino all'omicidio di Carlo Giuliani. E' una vendetta nei confronti di quel movimento che nel luglio del 2001 espresse radicalità diffusa e rispose in maniera determinata alla sospensione dei diritti perpetrata da PS, CC, GOM e GDF. Ora è rimasta solo la Cassazione, se il verdetto verrà confermato, per 10 di noi si apriranno le porte del carcere: non lasciamoli soli, la memoria è un ingranaggio collettivo.

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domenica 11 ottobre 2009

Meglio saperlo


E' comunque una notizia da verificare

Nel mese di marzo dell’anno 2000 una signora, presidente del consiglio comunale del Comune di Desenzano sul Garda per Forza Italia, fu espulsa dal consiglio, su mozione del suo partito, con la seguente motivazione [Delibera del consiglio comunale n. 33 del 31/03/2000]: *"manifesta incapacità ed improduttività politica ed organizzativa".* Questo consigliere comunale si chiamava Maria Stella Gelmini.

Pochi anni dopo fu scoperta da Silvio Berlusconi ed oggi è il Ministro dell'Istruzione e della Ricerca della Repubblica Italiana.

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